a1n1poly1Udine – Una giovane attrice canadese viene scelta per interpretare un film ispirato a un fatto di cronaca: l’assassinio di una donna avvenuto sei anni prima a Québec City. Un medico legale, originario di Berlino Est ed emigrato in Canada, ha una relazione con l’attrice e le confessa di essersi occupato di quel caso. E’ stato lui a sottoporre i sospettati al test del “polygraphe”, la “macchina della verità”. Il giovane cameriere di un ristorante, che occupa l’appartamento accanto a quello dell’attrice, era uno degli amici della donna assassinata ed è stato l’indiziato numero uno durante le indagini. La macchina della verità lo ha scagionato, ma lui non lo sa ed è ancora vittima di un ambiguo senso di colpa.

Tre personaggi si legano in una vicenda che ha le tensioni cinematografiche di un poliziesco alla Hitchcock. Si tratta invece di una pièce teatrale, costellata di indizi, sospetti, piste e coincidenze che portano la firma di uno dei più inventivi registi internazionali, il canadese Robert Lepage, mago, come suggerisce il titolo, nella “moltiplicazione delle scritture”.

Polygraphe è un thriller teatrale che ha che fare con la verità e i tanti modi in cui la si può leggere. La verità dei fatti e quella della fiction. La verità delle reazioni fisiologiche e quella delle convinzioni soggettive. La verità della macchina della verità.

a1n1poly2Ideato nel 1988, quando la storia apriva le prime crepe sul Muro di Berlino, lo spettacolo si è evoluto nel tempo. Del Muro ha fatto un potente simbolo narrativo e un elemento di grande resa scenografica. Basta la parete di mattoni rossi e qualche essenziale accessorio (un lavandino, il carrello dell’obitorio, anche soltanto il trasudare rosso del sangue tra i mattoni) per definire la sintassi veloce di luoghi e immagini che Lepage e la coautrice Marie Brassard impongono allo spettacolo, riallestito dopo che la versione in pellicola è stata presentata al Festival di Cannes e dopo oltre un decennio di repliche, ora in triplice versione canadese, spagnola e italiana. Con la traduzione di Franco Quadri, in Italia Polygraphe ha per interpreti Stefania Rocca, Nestor Saied e Giorgio Pasotti, e vede impegnato nella coproduzione il Centro Servizi e Spettacoli di Udine.

Non solo l’effetto cinema (titoli di testa, sequenze, dissolvenze, movimenti di macchina, flash-back) rende attrattivo lo spettacolo. C’è l’intelligenza di una regia che dispone i materiali in una rete di induzioni e di specchi. C’è il fiato sospeso di un racconto in cui la topografia di Berlino, ancora tranciata dal muro, si riflette nell’anatomia di un corpo lacerato da un gesto di violenza. La sequenza delle scene moltiplica indizi e consonanze, con soluzioni geniali come nel precedente La geometria dei miracoli, dedicato all’architetto Frank Lloyd Wright. Valga stavolta la sorpresa di inquadratura dall’alto sul luogo del delitto, o il continuo rimando alle scene di Amleto e al teschio di Yorik, o l’immagine di una matrioska che racchiude verità dentro altre verità.
Ellissi narrative e carrellate muovono intanto lo spettatore nello spazio e nel tempo: dal Canada alla Germania, dall’appartamento della ragazza alla stazione del metro e ai suoi reiterati fatti di sangue, dall’istituto di medicina legale al set dove si gira.
Stefania Rocca, volto conosciuto dal pubblico cinematografico in Nirvana e Viol@, deve impersonare un’attrice bella, ma di non grande esperienza, e ce la fa benissimo. Sono in sintonia con lei Nestor Saied, con la sua nostalgia di un affetto lasciato a Est, e Giorgio Pasotti, il cameriere vittima di sentimenti e passioni punitive, atletico anche negli scivolamenti lungo il muro delle complicità e dei sospetti, che nella scena conclusiva dovrebbero trovare ragioni per un chiarimento. O per supposizioni più allarmanti, perché nella ricostruzione mentale che lo spettatore si ritrova infine a fare, resta aperto lo spazio di più verità. La verità della macchina della verità non basta.