Anno IV - n.6 - 14 febbraio 2003
 

A RENATO NICOLINI DICO...

Pubblichiamo l'intervento di Alessandro Trigona Occhipinti, autore di Danno collaterale, in risposta alla recensione di Nicolini uscita nel n. 4 di Tuttoteatro. Lo spettacolo è stato presentato al Vascello di Roma con la regia di Giancarlo Nanni

di ALESSANDRO TRIGONA OCCHIPINTI

Sul sito www.tuttoteatro.com, è riportato un intervento di Renato Nicolini critico sulla rappresentazione di un mio testo teatrale, Danno collaterale, messo in scena al Teatro Vascello, con la regia di Giancarlo Nanni.
Rammentando gli insegnamenti di un maestro, quale Bertolt Brecht (<<bisogna tenere rilassato lo spettatore e lucida la scena>>), dall’indiscutibile valore, la critica di Nicolini si incentra su alcuni aspetti del testo che riprodurrebbero l’effetto "pugno nello stomaco". Ma… a questo punto… alcune precisazioni corrono d’obbligo.
La mia è una scrittura del tutto particolare, per molti versi spiazzante, che cerca di fondere insieme differenti tipi di scrittura: ritmi, situazioni, il ricorso alla frammentazione del tessuto narrativo, il ricorso al "flashback", al "cambio scena" che richiama più agli "stacchi" cinematografici che a quelli teatrali.
Sicuramente Danno collaterale è uno di quei testi che offrono diverse chiave di lettura e che costringono il regista a mettersi in discussione operando scelte non certo facili. Conseguentemente Giancarlo Nanni ha operato la sua scelta: accentuare l’aspetto cinematografico anche a discapito del profilo psicologico, il travaglio degli stessi personaggi (comunque ben presenti nel testo) in una dinamica che si richiama molto di più a Full metal jacket (come ha giustamente scritto su la Repubblica Rodolfo di Giammarco) che a Il gabbiano di Cécov. Una scelta che nel testo ci sta tutta. A costo, ripeto, di qualche forzatura scenica (la donna legata al tavolo nel testo non è presente) e le ripetute violenze che, sempre nel testo erano indicate come accadimenti "fuori scena". Nulla da eccepire. Si voleva denunciare la guerra quale atto criminale e questo è stato fatto.

Così è nato Danno collaterale, lo spettacolo che Nicolini e circa un migliaio di persone hanno visto. Ma nell’intervento di Nicolini c’è dell’altro. Qualcosa di molto più interessante e che vale una riflessione. C’è Brecht, ci sono i post-Pinter e, ahi noi, i cannibali.
Questa è un’epoca strana, pericolosa quanto del tutto particolare.
Il muro di Berlino è crollato e, a parte quella del mercato, non esistono più ideologie che ci possano illuminare. Esiste solo un pensiero e solo un impero: quello americano. Apparentemente non esistono più divisioni, contrapposizioni frontali. Eppure qualcosa non va e le contraddizioni esplodono.
L’Occidente si sta sempre più richiudendo in se stesso, rafforzando le proprie difese nei confronti di quei disperati, morti di fame del terzo e quarto mondo che hanno cominciato ad assediare la nostra opulenta civiltà in cerca di un modo migliore per vivere. Quella che predomina è la pura logica dell’uomo senza prospettiva se non quella di cercare di vivere e di sopravvivere alla meno peggio.
Il capitalismo, il nostro sistema economico occidentale, dimostrando di non aver capito assolutamente niente di quello che è successo negli ultimi 100 anni, gli insegnamenti del "secolo breve", riscopre l’essenza stessa dell’impero, della volontà egemonica di esercitare il dominio; rispolvera il colonialismo, il più becero imperialismo militare e si ripropone con tutta la ottocentesca brutalità del proprio sistema: la famelica volontà di possedere tutto e di più. E l’ideologia del "mercato" che trionfa, come trionfa l’individualismo, l’egoismo, la negazione più completa di concetti quali collettività, partecipazione, solidarietà. Non esistono più vie di mezzo e le diversità si enfatizzano, si estremizzano forse anche più del dovuto e della necessità reale. E ci si ritrova nel vicolo cieco delle scelte obbligate: o si accetta questa logica o si è fuori, si è antiquati, terroristi e così via. Il concetto del "o di qua, o di là": stare con i Bush, i Berlusconi, i ricchi, a quelli che, anche se con diverse sfaccettature, affermano "vinca il più forte e che gli altri si fottano". Oppure stare con gli esclusi con l’idea che forse un altro "mondo è possibile", "deve" essere possibile.
Allora l’atto di denuncia, il nostro atto di denuncia, diventa necessario, forse anche brutale, immediato, senza alcuna possibilità di fraintendimenti. Anche perché, e qui torniamo a Brecht, a "rilassare" lo spettatore, le persone, la gente, ci pensano già fin troppo bene, le televisioni, i film eroici americani, il varietà ed i comici d’accatto. Tutte cose, strumenti di alterazione del pensiero, che, al tempo di Brecht, non esistevano. Un tempo in cui il teatro rappresentava ancora un momento "sociale" di aggregazione nel quale le persone si incontravano, si confrontavano in un atto collettivo di riflessione e/o anche solo di svago.
Inutile dirlo che oggi il teatro non ricopre più questa funzione. È divenuto quasi un orpello, un vezzo, una snoberia che... giusto per pochi.
Visto come stanno le cose, le difficoltà di accesso agli altri mezzi di comunicazione, il teatro si trasforma, si scopre "politico", "sociale", vuole essere "politico", "sociale". Riscopre una sua antica vocazione, cercando di diversificare i linguaggi, mutuando i ritmi e i linguaggi degli altri strumenti (cinema e televisione in testa) di comunicazione di massa e si rimette in gioco. Diviene atto di coraggio, denuncia di fronte ad una situazione politica generale di degrado che sfiora il regime. Cerca un suo spazio, un’attenzione. E lancia il suo grido di allarme. A costo di dover ricorrere alla provocazione e, in qualche caso, anche all’effetto emotivo del "pugno nello stomaco", se questo può essere utile alla causa. Certo la lezione di Brecht è sempre lì, sempre valida. Ma proprio perché regola, può, come deve, essere violata.
Per quanto riguarda i "cannibali", i post-Pinter, di quelli non so, non voglio dire. Non sono parte di loro, né tanto meno mi sento rappresentativo di un movimento, mi sembra eccessivo chiamarlo così, che è ben poca cosa, privo come è di una visione complessiva della società, quasi culturalmente incapace ad avviare un’analisi, quale che sia, del contesto sociale e politico che gli ruota intorno. Ciò che si può affermare è che la loro istintiva sensibilità ha colto comunque l’esigenza di rompere il meccanismo della pura "rappresentazione" per mettere in scena squarci della realtà, di questa nostra opprimente realtà.
Per il resto, per quanto riguarda me, come scrittore di teatro e come promotore del gruppo di Teatro Civile, il discorso è e rimane diverso. Io seguo un progetto, un’idea di impegno nella convinzione che, se c’è un tempo per la riflessione e per l’astrazione, c’è un tempo – questo tempo – che pretende e impone delle scelte di campo. E, scusandomi per l’enfasi, "a la guerre comme a la guerre".
Per maggiori informazioni: www.sindacatoscrittori.net/trigona