Anno III - n.28 - 14 luglio 2002

PENTESILEA, EROINA BORGHESE

Dopo il debutto a Epidauro, il dramma di Heinrich von Kleist con la regia di Peter Stein è stato ospite del cartellone del nuovo Ortigia Festival, al Teatro Greco di Siracusa. Un personaggio scritto nel carattere di Maddalena Crippa: furente amazzone, amante cieca, realistica guerriera

di Roberto Canziani

Siracusa - Pentesilea non piaceva a Goethe. Tanto che rispondendo a Heinrich von Kleist che gliela aveva inviata, Goethe scartava subito l’idea metterla in scena a Weimar e più per cortesia che per altro, la destinava a un vago teatro “di là da venire”. Buona ragione perché non piaccia a tutti quest’opera che Kleist aveva finito di scrivere nel 1808 pasticciando un po’ con la mitologia, e che non torna spesso nel canone dei registi, assai più disponibili invece a raccontare la favola di Caterinetta von Heilbronn o i sogni sonnambuli del Principe di Homburg. Eppure questa stessa ragione fa di Pentesilea un materiale altamente attrattivo per altri registi con proposte da vendere e un capitale di idee da rischiare. Come sono stati Carmelo Bene e Thierry Salmon. Com’è Peter Stein.

Pentesilea è stato l’ultimo lavoro di Salmon, quando col titolo di L’assalto al cielo aveva fatto presidiare dalle amazzoni un capannone ai Cantieri della Zisa a Palermo. Oggi sempre in Sicilia, per un festival che nasce a Siracusa col nome di Ortigia Festival, la ritroviamo in mano a Stein: una messinscena imponente, ma più per il progetto che per la luce che getta sul testo. Anche se luce ne gettano perfino troppa, i 500 fari puntati sulla scena e sul pubblico, abbacinante fondale della modernità da contrapporre all’archeologica tournée che lo spettacolo sta compiendo.

La Pentesilea di Stein ha debuttato infatti nello spazio elettivo dello spettacolo antico, il teatro di Epidauro. Da là si è trasferita al Teatro Greco di Siracusa, e tra breve toccherà Urbisaglia, Carnuntum (Austria), Merida (Spagna), in una coproduzione internazionale messa insieme anche per ribaltare il precetto che vuole che nei teatri antichi vadano in scena antichi testi, mentre questo è un lavoro che si ambienta sotto le mura di Troia, ma sopra ogni cosa svela la vocazione romantica per il demone erotico e per la cecità d’amore.

Senza grandi sviluppi narrativi, e usando due punti focali come fa chi disegna un’ellissi (figura tipicamente kleistiana che sconvolge, ma non fino alla rottura, l’armonia classica del cerchio), Kleist mette di fronte due nemici amanti: Pentesilea regina delle amazzoni e Achille, campione della scorribanda achea. Ciò che sta loro intorno: i compagni greci, le femmine guerriere, una sacerdotessa austera, il mondo matriarcale che Pentesilea si porta appresso, sembrano solo un corredo, o il contorno al duello, che tra inseguimenti e prese, conclude l’opera nel binomio tragicamente borghese di amore e morte. Guerriera e amante Pentesilea ucciderà Achille, ma una volta scoperto di aver sacrificato alla potenza guerriera il proprio sentimento amoroso, ucciderà anche se stessa con un gesto di puro, asciutto, volontario annientamento. Dirà di voler morire e morirà. In anticipo su certe volitive signore di Ibsen.

Che Maddalena Crippa fosse tra le attrici italiane la Pentesilea più adatta, era sicuramente scritto nelle carte del suo carattere. Meno sicuro è che il fuoco lirico del personaggio vada d’accordo con la sua grana d’interprete: esatta dentro i registri del vero (vedi L’attesa di Remo Binosi oppure L’Annaspo di Raffaele Orlando) e ineguagliabile tra canzonette (in Canzonette Vagabonde appunto e Sboom), Crippa si posiziona lontano da quel declamare a cui la invita il testo di Kleist, tradotto qui da Enrico Filippini, ma più di vent’anni fa, anni che uno a uno si sentono.

Così l’impianto lirico si ribalta, e la regina amazzone che abbiamo solitamente considerato non un’eredità mitologica, ma una nuova funzione romantica, si adatta al carattere della sua attrice, aggressiva, tigresca, furente, vocalmente realista, in uno spettacolo che dal realismo si tiene a grande distanza. Maiuscola e generosa la sua prova protagonistica, divora ciò che le sta attorno, tanto che molto prima che glielo imponga Kleist col suo finale cruento, l’Achille di Graziano Piazza è già preda dell’amazzone e può opporle tutt’al più qualche battuta di spirito.

Ogni altra reazione sarebbe del resto inappropriata: moltiplicate dal disegno registico le amazzoni in scena sono più di trenta: spagnole, italiane, austriache, greche, bellicosissime nei canti che per loro ha composto Arturo Annecchino e vestite da Franca Squarciapino in pantaloni di cuoio alla maschia e fasce al petto. Sfuggire ai loro girotondi tribali è pressoché impossibile, anche se ci si chiama Diomede o Ulisse.

E nell’abbaglio dei riflettori che Dionisis Fotopoulos mette in una scena, tra i balli delle scalmanate e della loro feroce regina che nel finale stilla sangue, è come se questa volta qualcosa sfuggisse al controllo teutonico di Stein. Tradito forse dalla familiarità acquisita con Kleist al tempo del Principe di Homburg, o forse da quella che non acquisirà mai con la lingua italiana, Stein dà fin troppa vita a Pentesilea, ma Pentesilea non pare destinata a iscriversi tra le sue migliori regie.

A meno che il pubblico dei teatri antichi, abituato a ben più massacranti polpette estive, non premi la diversità di questo spettacolo. E accolga anche Pentesilea, ignorata da Eschilo, Sofocle e Euripide, non solo tra le pietre dei grandi anfiteatri all’aperto, ma nei prospettici e striminziti teatri delle stagioni invernali. Tornerebbe finalmente quella che aspira ad essere: un’eroina borghese.