Napoli città ideale per un nuovo tipo di festival

Napoli – 28 maggio – è il mio giorno a Napoli per il Maggio dei nuovi teatri. Il Maggio dei Monumenti (così fu chiamato dall’assessore all’Identità Nicolini ai tempi dell’amministrazione Bassolino) – agli inizi Monumenti a Porte Aperte, poi Napoli a Porte Aperte – è da molti anni ormai la stagione in cui Napoli presenta la sua cultura ai visitatori – una sorta di Estate romana ma corretta, poiché al suo centro, più degli spettacoli, c’è il patrimonio culturale – per mostrare l’identità della città.
Col tempo, l’impostazione iniziale si è allargata, fino a comprendere dentro di sé eventi tradizionali che però sono elementi di questa identità, come la processione per il Sangue di San Gennaro. Così come per l’Estate romana, il rischio del Maggio è di diventare la cornice unificante di una serie di eventi che non rivelano più, pur nella loro necessaria diversità, se non un progetto, almeno un punto di vista unificante.
E’ per questo che, nel 1997, l’ultimo anno del mio assessorato, ho tentato di innestare nel corpo del Maggio un Festival internazionale di teatro. Il mio ragionamento vedeva in Napoli la città ideale per un nuovo tipo di Festival, dichiaratamente urbano, che prendesse il posto del modello Spoleto (piccola città) ormai chiaramente logoro. Il mio tentativo non ebbe però successo.
Bisogna infine aggiungere al quadro la ritirata dell’Eti dai Percorsi Internazionali – o dalle Giornate italo-francesi – in favore di iniziative che, a giudicare dai dati delle presenze, si sono rivelate un po’ velleitarie come il Théâtre des Italiens presentato a Parigi in piena autarchia.
Tutto questo per spiegare le molte ragioni della mia contentezza per questo Maggio dei nuovi teatri – la cui formula consiste nell’accompagnare ad un ciclo di spettacoli, in qualche modo riassuntivi dell’identità teatrale della città attraverso il filtro del suo nuovo Teatro Stabile, il Mercadante, la presenza di un gruppo di spettacoli e di operatori di un paese ospite, quest’anno la Francia. E’ un Festival che si presenta come un incontro di lavoro, ma sperimenta la sua possibilità anche a basso budget. Ed è un Festival che fa consapevolmente i conti con il simbolico – nella scelta dei luoghi e degli spettacoli.
Il 28 maggio a mezzogiorno gli spettatori sono stati invitati al loro primo appuntamento, L’ereditiera di Ruccello e Lello Guida messa in scena da Arturo Cirillo al Teatro Nuovo di Igina di Napoli, nel cuore dei Quartieri Spagnoli. L’ereditiera nella regia ed interpretazione di Cirillo mi sembra il miglior manifesto delle attuali tendenze teatrali napoletane: autoironia, leggerezza, disponibilità a contaminare il teatro con il musical e con il cinema… Ne ho già parlato, del resto (vedi Tuttoteatro anno V, n. 9); ed a mezzogiorno ero ancora sul treno che mi portava a Napoli da Reggio Calabria.
Alle 21, al Mercadante, venivano invece rappresentati I pescecani di Armando Punzo. Punzo è un autore a cui sono legato anche dalla casualità (o forse qualcosa di più) – perché l’ho conosciuto nei due anni in cui ho diretto, dopo Gassman, Volterrateatro. Fu proprio nel secondo anno della mia gestione, che esordì la Compagnia della Fortezza, con una per me indimenticabile Gatta Cenerentola. Armando Punzo è nato a Napoli, si è formato teatralmente a Napoli, ed ha trovato la sua forma artistica nell’incontro con i detenuti del carcere di massima sicurezza di Volterra, molti dei quali condannati per reati di camorra. E’ la prismatica sfaccettatura della tradizione teatrale napoletana, quando viene in modo così radicale, ed in forme così differenti, straniata dai luoghi di origine, a costituire uno dei motivi profondi del fascino di questi spettacoli. Punzo è così un nomade naturalmente brechtiano. Così come ha conseguenze naturalmente artaudiane (e genettiane) la scelta di lavorare con i detenuti: una condizione nella quale la fisicità – costretta – non può comunque non manifestarsi. Nel carcere l’istituzione stato si manifesta come istituzione totalecontro la quale il corpo continua a tentare, nei propri specifici modi, di resistere. Come diceva Graham Greene: <<il nostro dovere nei confronti della società è quello di essere un granello di sabbia negli ingranaggi dello Stato>>.
Le limitazioni che vincolano le tournée della Compagnia della Fortezza (possono parteciparvi solo i detenuti che ottengono e decidono di utilizzare così una licenza premio) ha reso inevitabile il rinforzo, per lo spettacolo al Mercadante, della Contrabbanda di Luciano Russo. L’affollamento della scena ad opera dell’orchestra ha così costruito uno scenario profondamente diverso da quello del cortile del carcere-fortezza di Volterra. Molto interno – molto in sintonia con l’idea di cabaret tedesco che possiamo farci leggendo le pagine dell’autobiografia di Canetti a proposito della sua visita, agli inizi degli Anni Trenta, a Berlino. Uno spazio ristretto popolato da una folla grosziana di <<Can Can, Luci Rosse, Ballerine, Ballerini, Assassini, Magnaccia, Barboni, Puttane, Travestiti, Ricchi, Signori, Ladri, Ruffiani, Maniaci, Preti, Vescovi, Giocatori, Guardiaspalle, Musicisti, Cabarettisti, Traditori e Giuda>>, come dice il programma di sala.
Gli attori non usano solo la scena, entrano assieme al pubblico, percorrono la platea, vi dimorano, indossano cartelli sulle spalle. Indubbiamente, L’opera da tre soldi è scomposta, decostruita, ridotta ai minimi termini – fino a farle restituire, anche per la via analitica, tutto il suo senso. Vedendo lo spettacolo ho pensato alle Ceneri di Brecht di Eugenio Barba, così programmaticamente in tono alto. Fatta questa differenza – spostando tra di loro alto e basso – l’omaggio a Brecht di Punzo è ugualmente critico ed intenso. Sottrarre il senso alle parole per fare emergere il teatro. L’assenza nella presenza.
Dopo, gli spettatori sono stati condotti, a bordo di due pullman, mentre cominciava a cadere la pioggia, che ad un certo punto si è trasformata in un acquazzone violento – come un rullo di tamburi sopra la scena teatrale – fino all’unico padiglione superstite dell’Italsider di Bagnoli.
Li ha accolti OrO di Cossia, Di Florio, Veno (in collaborazione con I Teatrini). L’avevo già visto come Laboratorio in occasione di Tempo Incerto al Gesualdo di Avellino. Come spettacolo mostra ancora il suo riferimento agli Anni Sessanta, al teatro in cui era la presenza dello spettatore ad attivare (un po’ casualmente ed in forma rigorosamente frammentaria) l’azione scenica. Poi si distende in forma corale, diventa azione collettiva – ma sempre con delicata leggerezza.
Quasi senza intervallo, a mezzanotte passata, proprio mentre la pioggia cadeva più violenta, gli spettatori si sono seduti sulle gradinate allestite nel fondo del padiglione (lo stesso spazio dell’Agamennone di García), per assistere a Pa’ di Anna Redi – su una drammaturgia di Federica Jacobelli. Si sente la voce della madre di Anna Redi che ricorda gli anni della guerra – ci ritroviamo nel clima del 1942. Si viaggia nel tempo, mescolando immagini dell’Italia di allora, della successiva Italia del boom (la Vespa in primo piano), alle intenzioni arcaiche del mito di Atreo e Tieste, della carne dei figli offerta all’inconsapevole padre. Oltre il mito di Epido, c’è il mito ancora più atroce – rovesciamento ed ombra del mito di Crono che divora i propri figli. Il viaggio, ancora più che in OrO, non avviene più nello spazio, ma nel tempo. Usciti a forza, pagato sanguinosamente l’errore, dalla visione della storia come progresso, visitiamo la storia come la nostra nuova geografia, come il luogo principale del perturbante e del non conosciuto. Lo spettatore è invitato a misurarsi con il Pasolini che scrive <<infelici sono i figli che non si liberano delle colpe dei padri>>, e che non c’è <<segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità>>. Anna Redi, attrice di Martone nei Dieci Comandamenti, si limita qui a comparire fugacemente in scena in una scena di ballo, e si rivela regista di talento. Lo spettacolo regge anche al chiuso, nello spazio scenico del padiglione – ma con la mente, mentre lo vedo, immagino e cerco di figurarmelo all’aperto, nelle cave vicino Caserta, come è stato rappresentato per “Petrolio”.
La scena napoletana è così descritta per frammenti – nella sua pluralità discorde (e proprio per questo consonante). Il giorno dopo, attendono gli spettatori gli spazi del Teatro Elicantropo, a mezzogiorno, per un’ulteriore ripresa di Italietta di Carlo Cerciello; della Galleria Toledo alle 18,00, per SuperElioGabbaret con Massimo Verdastro; e del Mercadante, alle 21.00, per Benjaminowo: padre e figlio di Toni Servillo, che ci riporta all’Italia dopo l’8 settembre. Lì, sulle pareti del foyer, 24 immagini fotografiche di Luciano Ferrara ripropongono alla memoria il progetto “Petrolio”, asse portante della prima stagione del nuovo Teatro Stabile di Napoli.