Finalmente arriviamo alle giornate conclusive del Premio, siamo al Teatro India. Per il secondo anno consecutivo, il gruppo di Tuttoteatro.com è accolto nel luogo, istituzionale e più prestigioso della Capitale, deputato alla scena contemporanea. E, arrivati al termine, ogni anno mi ritrovo a scrivere queste righe con la mente affollata dai pensieri scaturiti dalla vicenda organizzativa, e mi sembra un miracolo già il solo fatto di poterle poi stampare. Sì, questo oggettino, che raccoglie in estrema sintesi gli esiti della quinta edizione – e che quest’anno si mostra con un omaggio a Leo de Berardinis, ora che ci ha definitivamente lasciati – non è scontato averlo tra le mani. Intanto, perché stamparlo costa soldi che non abbiamo e poi perché è proprio l’intero progetto del Premio a essere a rischio. Ogni anno si ispessisce la coltre di incertezze intorno a quest’iniziativa, nonostante la sua necessità di esistere come azione di scavo nel sommerso scenico contemporaneo sia riconosciuta da artisti, operatori e istituzioni. Allora, la gioia per essere riusciti ancora una volta a portare a compimento un’impresa donchisciottesca dovrebbe risultare abbastanza grande da affrancarci tutti dalla stanchezza. Dovrebbe, e in parte lo è. Però, alcuni motivi di questa incompleta soddisfazione si devono qui esprimere in modo chiaro, visto che i miracoli non esistono e comunque seppure esistessero il Premio che dedichiamo a Dante Cappelletti non è da ascriversi in questa categoria di eventi. Al contrario, la sua sopravvivenza è il risultato di un’azione quotidiana di resistenza, lungo l’arco di dodici mesi. E poi, certo, questa quinta edizione è stata resa possibile dal rinnovato sostegno di alcune istituzioni che qui voglio di nuovo ringraziare. In particolare, l’Ente Teatrale Italiano e la Provincia di Roma, e naturalmente il Teatro di Roma che offre, a sette nuovi spettacoli non ancora compiuti, uno spazio stra-ordinario per un primo confronto con gli spettatori.
Questi mesi sono stati difficili – e sicuramente quelli che verranno saranno peggiori per l’intera cultura italiana, soggiogata alla politica dei partiti e in balia degli errori dei suoi uomini (le donne hanno ancora poche occasioni per sbagliare!). Al consueto immobilismo che in Italia precede ogni tornata elettorale, sta seguendo uno sfrondamento a colpi di accetta. Che a Roma quest’ultima abbia colpito anche il Premio è rilevante nella misura in cui il nostro taglio rappresenta un piccolo tassello di un disegno molto vasto di azzeramento per cerchi concentrici. Vedremo, saranno i fatti a smentirlo. Per ora, basta un pizzico di attenzione per capire che la crisi economica (mondiale) serve a veicolare misure che hanno come obiettivo immediato – per altro da più parti espressamente dichiarato – il mutamento delle regole basilari per una convivenza civile. E a medio termine – questo non affermato direttamente – la conquista dell’egemonia culturale. Invece, tolleranza, solidarietà ed equa distribuzione delle risorse formano ancora in questo XXI secolo il paradigma minimo dal quale partire per costruire una società più giusta e liberata dalla “paura liquida” che Zygmunt Bauman ci ha spiegato essersi insinuata in ogni piccola re-azione quotidiana.
Ma torniamo alla nostra pratica. Chi lavora sui fatti non si limita ad averne percezione, rimane proprio travolto dalla politica. Giusto per fornire un esempio concreto, vale la pena di ricordare che i problemi con la giustizia del sindaco di Rosignano Marittimo hanno chiuso al Premio le porte di Castello Pasquini, a Castiglioncello, il quasi tradizionale luogo di svolgimento della tappa semifinale. Articolazione essenziale alla vita del Concorso che avremmo dovuto tenere per strada o nella virtualità di Second life se non ci fosse stato il Kollatino Underground, spazio occupato e autogestito, tra i più attivi nell’accoglienza della creatività contemporanea e nell’ospitalità (a prezzi fuori mercato) dei processi produttivi. Non perdo questa occasione per ribadire che a Roma sono diversi i centri di aggregazione culturale che suppliscono a quella che dovrebbe essere una delle prime funzioni delle istituzioni pubbliche. Ne va di conseguenza che in assenza di mezzi propri, molte delle esperienze artistiche incrociate dal Premio nelle sue cinque edizioni trovano in questi centri spontanei una struttura ricettiva a livello produttivo, prima, e di visibilità, dopo. Una casa, insomma, in cui provare e poi mostrare il proprio lavoro.
Questo dei luoghi è il punto cruciale, il nodo che non riusciamo a sciogliere con il Premio, insieme al problema dell’accesso alle risorse. Per le sette nuove opere ancora in fieri, selezionate dalla giuria tra 125 progetti candidati, dopo l’apparizione su uno dei palcoscenici più importanti d’Italia, ci sono pochissime speranze di accesso ai circuiti ufficiali. Lo scorso anno, a questo stesso punto, invitavo direttori di teatri e programmatori ad avere coraggio per scardinare le dinamiche di un sistema teatrale decrepito e provare ad avviare il cambiamento. Chissà che non lo trovino oggi questo coraggio, in questo mutato panorama politico-economico che non garantisce più lo status quo? I tagli al Fus e ad altri strumenti di intervento finanziario – il Patto Stato Regioni – altereranno gli equilibri dell’intero comparto spettacolo dal vivo, anche delle zone più protette. Personalmente, temo in un arroccamento resistenziale. Di nuovo, vorrei che i fatti mi smentissero.
Nel frattempo, godiamoci questa due-giorni a India, vediamolo almeno una volta il lavoro di queste sette compagnie. Parlano di noi, con linguaggi diversi, anche se quest’anno proprio la parola emerge con forza a raccontare le nostre storie ordinarie, quelle che non vorremmo mai ascoltare. È un teatro questo che funziona da lente d’ingrandimento, ci permette una lettura critica della nostra realtà quotidiana e normalizzata. Normale come i Tre passi sulla luna che fa Fortunato Cerlino per entrare nell’intimità di un uomo e una donna, dilatandola poi in una strana triangolazione con la vicina di casa. E ancora le relazioni umane, ma in una dimensione collettiva, sono al centro dell’entropica Storia di un teatro, immaginata da Giovanni Greco con Le sirene, il gruppo allontanato nei mesi scorsi dal Teatro del Lido di Ostia. Mario Mantilli continua a interrogarsi sulle mostruosità della ex Jugoslavia, conducendoci dritti nella Tana della tigre col suo Progetto Target. Mentre l’inedita coppia Daniele Timpano/Elvira Frosini in Sì l’ammore no usa toni leggeri per denudare un’italianità svilita e decadente. Torna col ritmo del cunto nelle tonnare della sua Trapani, Gaspare Balsamo, per ricordarci che quello Non è più un mare per tonni, ma per cadaveri di migranti. E denunciano altre morti – da uranio impoverito – i due soldati Sul confine di Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti. Sono tragedie del presente, mantenute celate, ma ben conosciute dai nostri soldati reduci dalle zone di guerra. Anche Francesca Sangalli col suo Mitigare il buio fuori risolleva l’attenzione su un problema ultimamente trascurato, la dipendenza da eroina, che nel silenzio continua ad annientare le coscienze.

Non sono tematiche da intrattenimento, certo, un po’ ci invitano a pensare questi artisti. Anche se è sempre una festa quando il teatro marginale e abbandonato compare in luogo accogliente, caldo e attrezzato. Ma dopo cinque edizioni comincia il tempo dei bilanci e, mentre mi domando quale sia il senso di questo Premio, vedo gli incontri e le conoscenze che hanno innervato la sua piccola storia. Dante Cappelletti ne sarebbe felice. Per questo nel foyer esponiamo le immagini di Massimo Staich, per sollecitare la

memoria

e le

coincidenze

, mentre con l’happening su

Verona caput fasci

di Elena Vanni, Elio Germano e Raimondo Brandi proviamo a vedere dove siamo arrivati.