Anno III - n.1 - 05/01/2002
SULLA STRADA DEL DISINCANTO
Mentre a India va in scena Tradimenti di Harold Pinter con la regia di Valerio Binasco, crescono gli interrogativi sul futuro di questo spazio del Teatro di Roma, voluto da Mario Martone. Cosa accadrà di un investimento comunale, comprensibile e coraggioso se si fosse proseguito sulla strada di cui il predecessore di Giorgio Albertazzi era il simbolo oltre la sua funzione di direttore artistico, quando si ritorna al passato?
di RENATO NICOLINI
Roma - Giorgio Albertazzi, neo direttore artistico dello Stabile di Roma è arrivato ad "India" pochi istanti prima dell’inizio della
rappresentazione di
Tradimenti di Harold Pinter, prodotto dal Teatro Stabile di Firenze con la regia di Valerio Binasco, che ne è anche interprete nel
ruolo di Robert (il marito) assieme a Iaia Forte (la moglie) e Tommaso Ragno (l’amante). Albertazzi si è seduto su una sedia aggiunta, all’estrema sinistra della
prima fila, da dove non poteva guardare completamente la scena. Ne va apprezzato lo stile discreto, lontano dai fasti spagnoli di quel predecessore cui potrebbe
guardare per ricollegarsi, non certo Mario Martone ma Pietro Carriglio, che però si sedeva (metaforicamente) soltanto tra triplici squilli di tromba.
Albertazzi si è poi spostato in seconda fila, ma in posizione più centrale, proprio accanto a me che gli avevo segnalato il posto
libero. Sono stato perciò testimone delle sue reazioni a quanto avveniva in scena. Risate appropriate, interesse e curiosità. Inizio così la mia
cronaca perché quello che dovrà accadere di India, del gioiello donato da Francesco Rutelli (architetti due maestri dell’effimero architettonico,
che hanno segnato le migliori edizioni della mia estate romana, Peppe De Boni ed Ugo Colombari), con un costo per il Comune di Roma intorno ai dieci miliardi
di lire, al Teatro di Roma versione Mario Martone.
Cosa succederà di India? Pietra dello scandalo montato
contro Martone e
senza reali argomenti da quel Massimo
Pedroni, attore in quota stabile Alleanza nazionale, che rappresenta (molto più dell’appariscente ma evanescente Sandro Curzi, che si contenta di aver fatto
rinviare di due giorni la nomina di Giorgio Albertazzi) la continuità dell’attuale Consiglio di Amministrazione del Teatro di Roma, presieduto dall’ex capo di
gabinetto di Walter Veltroni e Giovanna Melandri, Oberdan Forlenza (sfortunato padre della proposta di legge mai approvata di riforma del teatro, e responsabile senza
attenuanti dell’ultima edizione
triennalizzata della famigerata circolare ministeriale) con quello presieduto da Walter Pedullà. Cosa accadrà di un
investimento comunale, comprensibile e coraggioso se si fosse proseguito sulla strada di cui Martone era il simbolo oltre la sua funzione di direttore artistico,
abbastanza ingombrante e fuori mercato (data la sua ristretta capienza) quando si ritorna al passato?
Mi è capitato proprio questa settimana di rivedere, su Telepiù,
Teatro di guerra di Mario Martone, un film che in anticipo
aveva già detto quello che c’è di essenziale da dire come commento non solo alla vicenda Martone-Argentina-India ma a tutta la situazione del teatro
italiano. C’è ormai una radicale differenza di mentalità tra un tipo di teatro – che non si vede perché lo Stato italiano dovrebbe sostenere con
erogazione di contributi in denaro, favorendo pigrizia nelle innovazioni come conseguenza
del protezionismo, anziché con la leva delle agevolazioni fiscali
più appropriata ad ogni intervento su un’industria, come anche lo spettacolo è – abitudinario, vecchio, un po’ casereccio come le fatiche di Gigi Proietti
- ed inevitabilmente commerciale e quello che segue la strada della ricerca e della qualità, che si può presentare ai festival internazionali e su cui si
può puntare per un’immagine forte della nostra cultura (
oggi, non ai tempi del Rinascimento) nel mondo della concorrenza globale. La cosa che mi ha
colpito di più rivedendo
Teatro di guerra non è stata però questa, che certo non è più capace di stupirmi. Mi ha stupito
invece come questo film sia passato in una sostanziale disattenzione, che testimonia quanto l’importanza del teatro sia sottovalutata dall’
establishment politico
italiano, a destra ed a sinistra.
Teatro di guerra è uscito proprio quando Martone era stato chiamato alla direzione del Teatro di Roma, è un
chiaro manifesto del suo pensiero riguardo al teatro degli intrallazzi e dei presenzialismi: perché è stato chiamato Mario Martone per poi lasciarlo solo ed
infine sostituirlo con una scelta
opposta (e non per le differenze di pensiero politico) come Giorgio Albertazzi? E’ difficile sfuggire all’impressione che la politica
italiana stenti a riconoscere, come unica possibile via
bipartisan (per usare una brutta parola di moda), quella della sua autonomia, costruendo istituzioni teatrali
sulla misura dei loro direttori artistici, che sono poi quelli che il teatro lo fanno. La misura è invece quella della convenienza politica, per di più del
momento, l’intervista all’assessore o al presidente, le dichiarazioni dei consiglieri, il balletto delle cifre e delle opinioni estetiche in libertà. Tutto questo finisce per
costare molto più di quanto non renda. E soprattutto per distorcere il meccanismo che dovrebbe correttamente legare il teatro, lo spettacolo dal vivo, agli
spettacoli riprodotti, al cinema e più ancora alla televisione. Sono sempre meno gli attori teatrali che divengono attori cinematografici e televisivi, sempre
più frequente il contrario. Il Teatro Parioli, per fare un esempio, non esisterebbe senza il
Maurizio Costanzo Show, e ne introietta tutta la natura di set
televisivo. Ma non è molto diverso il caso dell’Ambra Jovinelli di Serena Dandini, dove però tutto è immaginario,
dalla televisione di
riferimento (dopo il crollo della Sette) ad una programmazione frequentemente interrotta.
Concludendo su
Teatro di guerra: non è neanche questo che mi stupisce, quanto il fatto che
Teatro di guerra è
la migliore prova di Martone regista cinematografico, come
I dieci comandamenti la sua migliore prova di regista teatrale. Non si può che desumerne
che Martone è stato
lasciato solo e costretto alle dimissioni proprio nel momento della maggiore creatività artistica. Proprio la sua autonomia
dalla bassa cucina della politica avrebbe dovuto indurre ad una sua difesa più ferma. Prima Rutelli e poi Veltroni hanno invece scelto la strada del silenzio, del
fare finta di nulla. Se lo lascino dire da chi ha più esperienza, è una strada che non porta da nessuna parte. Voler controllare
politicamente,
secondo il metro del
politically correct il teatro, raccomandandogli equilibrio, moderazione, pluralismo, se non è ipocrisia, è demenza.
Torniamo a Tradimenti, anche se il retroscena che ho esposto mi sembra più propedeutico che fuori tema. Mi sembra che il
lontano archetipo di Pinter sia l’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, che non è il dramma degli amori di Antonio e Cleopatra, ma il dramma dei
tradimenti, che avvengono tanto a Roma quanto in Egitto, che interessano tanto le relazioni di potere tra Marco Antonio, Ottaviano, Lepido e Pompeo quanto il
rapporto stesso tra Antonio e Cleopatra. Dal tempo elisabettiano al nostro tutto è mutato fuorché il cinismo, il disincanto con cui la nostra rapida
intelligenza sa prendere atto di tutto. La paura di essere scoperti si trasforma così in una corazza che ci rende impermeabili alle nostre stesse emozioni.
Con la conseguenza che la nostra stessa esperienza di vita ci è incomprensibile, non appena si abbandonano i luoghi comuni ed i comportamenti di
circostanza, dai quali l’adulterio è educatamente regolato.
Valerio Binasco sceglie la strada - secondo la lezione di Carlo Cecchi - delle battute dette velocemente, quasi di prima intenzione, senza
cadere nella trappola che - sotto il gesso dell’approfondimento psicologico - paralizza il teatro borghese, nell’impossibile ricerca della coerenza dei
personaggi. Il meccanismo della situazione, al contrario, impone le sue regole ai personaggi, afasici, incapaci di comunicare tra di loro quanto di essere consapevoli
dei propri desideri. Se il personaggio di Binasco ha un fondo di volontà di sapere, che lo porta forse un po’ fuori dal campo dell’ambiguità, il
personaggio di Tommaso Ragno sembra al contrario sorpreso dalla sua stessa storia. Iaia Forte è la controparte vitalista di questa immobilità
sostanziale. Percorriamo così, con animo leggero e non senza divertimento e risa, la strada del disincanto che ci mostra Harold Pinter nostro
contemporaneo.