Anno II - n.17 - 28/04/2001
IL ROVESCIO DEI DESTINI
Al Teatro Studio del Piccolo di Milano Il principe costante, allestito da Cesare Lievi per il Centro Teatrale Bresciano e per il Biondo di Palermo. Il testo, scritto da Calderon de la Barca nel 1629, è una vera rarità per le nostre scene. Il regista sembra interrogarsi sulla fede come verità dello spirito, anche se la sostanza barocca (e controriformista) alla fine risulta ingombrante e prorompente con i suoi contrasti e le sue metafore
Milano - Nella penombra di una prigione oscura. Uno stanzone, una scala, celle e finestroni su piani sfasati. I carcerati, tutti uomini, in semplici
abiti contemporanei, stanno in gruppo o soli, abbandonati, a ricordare, a sperare la liberazione con un triste canto. Un canto che diventa quello dei prigionieri
portoghesi alla corte del re di Fez, le voci malinconiche che ascolta la principessa combattuta fra il cuore e l'ubbidienza, fra il giovane che ama e lo sposo che il padre
vorrebbe imporle per politica. Un carceriere all'inizio saggia la resistenza delle sbarre. Le percuoterà ancora alla fine, per ricordarci che la storia alla quale
abbiamo assistito per due ore è qualcosa di simile al sogno.
Slitta da un'ambientazione realistica alla favola e poi al grande apologo barocco sulla coerenza, sulla ricerca di verità, sulla fede,
sull'aspirazione a una libertà profonda, Il principe costante allestito da Cesare Lievi per il Centro Teatrale Bresciano e per il Teatro Biondo di Palermo,
presentato al Teatro Studio del Piccolo di Milano. I nostri non sono sicuramente tempi di valori assoluti che dirigono la condotta, di interrogativi fondamentali, di esempi
titanici (ricordiamo che il lavoro è inserito all'interno di un progetto triennale del Teatro Biondo sul titanismo e sul tenebrismo).
Il regista, uno degli intellettuali più raffinati del nostro teatro, è stato affascinato proprio dalla lontananza di questo dramma:
<<Penso - dichiara in un'intervista che costituisce il programma di sala - che il segreto del Principe stia proprio nell'essere così poco moderno da
risultare attuale>>.
E a questa spiazzante forza faceva riferimento anche il mitico (in questo caso un termine tanto abusato forse è legittimo)
Principe
costante di Jerzy Grotowski, uno spettacolo che ha segnato, anche solo nell'icona dell'espressività totale del corpo di Richard Cieslak, l'immaginario
teatrale di una generazione.
Nell'allestimento di Lievi siamo lontani, naturalmente, da quello sconvolgente precedente. Qualche richiamo plausibile può essere
piuttosto riferito agli universi chiusi, maschili e cerimoniali di Genet, o ai lavori teatrali che si realizzano nelle carceri. L'attenzione è catalizzata sul rovescio dei
destini, sulla sorte del principe cristiano arrivato in Africa come una specie di Rommel e poi ridotto in schiavitù, sulla sua estrema lealtà e ricerca di un
bene che trascenda quello personale. Non accetterà la libertà in cambio della cessione ai mussulmani della città di Ceuta, non
consentirà a cristiani di finire sotto il dominio dei Mori, vedendo disgregata la propria società. Perseguirà in prigionia una fedeltà al
dovere, alla necessità interiore, che gli conquisterà una più profonda libertà. Eppure questa intransigente onestà intellettuale gli
causerà il patimento, la vessazione, la morte.
Per Calderon diventa una evidente controfigura del Cristo. Lievi, più laicamente, sembra interrogarsi più sulla fede come
verità dello spirito, anche se la sostanza barocca (e controriformista) del testo alla fine risulta ingombrante e prorompente con i suoi contrasti e le sue metafore.
Ma soprattutto ci sembra non del tutto riuscito il tentativo di sviluppare un doppio livello narrativo, quello dei carcerati in costumi contemporanei (disegnati da Andrea
Taddei) che raccontano e impersonano questa storia per evadere dalle loro mura. I momenti
carcerari - nella scena di Csaba Antal, che ricorda quella del
Marat
Sade della Compagnia della Fortezza a rovescio (le sbarre sul fondo) - risultano piuttosto convenzionali e poco approfonditi: i reclusi sono soprattutto spettatori
muti della storia e appare assente quello che poteva essere il momento spiazzante della trasformazione nei personaggi del racconto. I canti di Emanuele de Cecchi
(con il contributo per l'improvvisazione musicale di Mario Arcari), non sempre eseguiti in modo impeccabile, creano qualche suggestione, ma anche qualche troppo
facile effetto di patetico e sentimentale coinvolgimento.
Lo spettacolo si accende soprattutto nella figura del protagonista, interpretato da Tommaso Ragno. Con una voce densissima e con la sua
bella presenza spicca in potenza, delicatezza e incisività. Gli altri attori gli creano un buon contorno. Da ricordare, fra gli altri, perlomeno l'interpretazione di
Alfonso Veneroso nella parte dell'altro eroe cortese di campo avverso, Mulay, il sobrio ritratto femminile della principessa Fenix offerto da Emanuele Carucci Viterbi e
l'agilità acrobatica del gracioso (il personaggio comico), interpretato da Rufin Doh Zeyenouin. Luci d'atmosfera di Gigi Saccomandi; nuova traduzione in
versi sciolti di Enrica Cancelliere, rielaborata per la scena dallo stesso Cesare Lievi. (Massimo Marino)